Il futuro è artigiano. Lo profetizzava Philip K. Dick nelle sue opere visionarie, dove spesso il protagonista era una sorta di artigiano, abilissimo nel costruire o riparare le cose. Lo scrive oggi Stefano Micelli. Veneziano doc, docente di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Ca’ Foscari, e autore di un libro, Futuro artigiano (Marsilio), che ha riscosso l’interesse di tutto il mondo produttivo italiano. Nonché successo tra il grande pubblico.
Le tesi di Micelli sembrano l’uovo di Colombo: il lavoro artigiano è una delle cifre della cultura e dell’economia italiana; se si tornasse a scommettere su di esso, contaminandolo con i “nuovi saperi” tecnologici e aprendolo alla globalizzazione, l’Italia si ritroverebbe tra le mani un formidabile strumento di crescita e innovazione. Come dimostrano alcune delle più dinamiche imprese italiane (da Geox a Zamperla, da Gucci a Valcucine) il “saper fare” rimane un ingrediente indispensabile per l’intero manifatturiero italiano. Che, alla fine, è uno dei pochi settori vitali della nostra economia.
«Parliamo sempre di trasferimento tecnologico – dice Micelli – ma bisognerebbe parlare di osmosi. Osmosi tecnica e tecnologica. Cioè mescolare le abilità artigianali con le competenze industriali; le capacità dei tecnologi e dei manager con quelle, straordinarie, dei tecnici e degli artigiani».
Quella di Micelli potrebbe sembrare una provocazione nostalgica, quasi passatista. In realtà c’è una buona dose di pragmatismo, nella sua riflessione. Non a caso, nel paese innovatore per antonomasia, cioè gli Stati Uniti, la causa dei “makers”, di coloro che si fanno le cose da soli, sta guadagnando sempre più consensi. Per tanti motivi. Ad esempio, per sfuggire alle logiche impersonali della produzione di massa. O perché manutenere è meglio che riciclare; riparare un oggetto che non funziona è spesso un gesto più ecologico che comprarne uno nuovo. Con buona pace dei diktat consumisti.
E poi il lavoro artigianale non restituisce dignità solo alle cose; anche alle persone. Nelle prime pagine del suo libro, Micelli cita la parabola di Matthew Crawford. Laureato in fisica, PhD in filosofia politica, Crawford finisce presto in un noto think tank conservatore. Un lavoro ben retribuito, importante. Ma che non lo appaga. E così, pochi mesi dopo, molla tutto e apre a Richmond (Virginia), un’officina di riparazioni, la Shockoe Moto. Qui aggiusta vecchie motociclette: un lavoro che magari non fa arricchire, ma rende orgogliosi e gratificati.
Riscoprire il “saper fare”. Ben consapevoli però della globalizzazione e dei “nuovi saperi.” In un Paese come l’Italia, famoso per i suoi prodotti di qualità, e dove la disoccupazione giovanile è altissima ma scarseggiano carpentieri, fornai, sarti e scalpellini, non sembra una cattiva idea.
Professore, il titolo del suo libro suona provocatorio. Oggi tutti parlano di economia della conoscenza, e lei tesse le lodi dell’artigianato.
Nel mio libro ho provato a ribaltare una prospettiva, una visione ormai radicata. Noi siamo vittime di un concetto, quello di “economia della conoscenza”, che si fonda su un assunto quasi ideologico: cioè che solo la conoscenza formalizzata è rilevante, ed essa non ha a che fare né con la tradizione né con la manualità. Abbiamo abbracciato il presupposto in base al quale l’unica conoscenza economicamente rilevante è quella scientifica, di tipo generale-astratto. Il nostro presupposto, il Canone occidentale contemporaneo, è questo. Pensi solo al testo L’economia delle nazioni di Robert Reich, e alla sua influenza sulla mia generazione.
Lei lo cita, nel suo libro. «Vent’anni fa Robert Reich […] metteva a fuoco la figura degli analisti simbolici come pivot di una tecnocrazia capace di imporre il proprio ruolo a livello globale. Gli analisti simbolici […] che, di mestiere, “individuano e risolvono i problemi e fanno opera di intermediazione mediante l’elaborazione intellettuale di simboli”».
Robert Reich sosteneva che il futuro sarebbe appartenuto ai cosiddetti analisti simbolici. Gli analisti simbolici sono i consulenti finanziari, i trader, gli intermediari immobiliari e così via. E tutto il mondo gli ha creduto, dando credito a chi si limita a lavorare con PowerPoint dietro lo schermo di un computer. Questa idea oggi è in crisi negli Stati Uniti. Ed è in crisi in tutto il mondo.
Torniamo all’Italia. Cosa c’entra il cosiddetto “quarto capitalismo”, nuova gloria della nostra economia, con gli artigiani?
Oggi, in Italia, si parla tanto di multinazionali tascabili. Ebbene, io ho voluto capire cosa ha fatto e cosa fa la ricchezza di queste medie imprese. Ho preso in considerazione, ad esempio, il settore del lusso. Qui è significativo il passaggio dall’idea di moda, di fashion, a quella di patrimonio culturale, l’heritage. Con il termine heritage le case di moda indicano tutto quello che ha a che fare con il contenuto culturale di un prodotto e con il suo retaggio simbolico. Oggi, se lei entra in un negozio di Gucci può vedere un video con degli artigiani al lavoro su una borsa. È una cosa incredibile: quella borsa vale migliaia di euro, e Gucci mostra come la si realizza. Stiamo parlando di uno dei principali marchi del Made in Italy e di un’azienda con un fatturato di tre miliardi di euro! Deve far riflettere che l’imprenditore francese François-Henri Pinault abbia costruito un’intera strategia su questo.
Sull’artigianalità?
Assolutamente. Pensi a Bottega Veneta. Quando l’ha comprata Pinault, una decina di anni fa, fatturava una trentina milioni di euro. Adesso fattura oltre mezzo miliardo. Tutto scommettendo sull’artigianalità.
Però si tratta di lusso. E il lusso non è il classico settore industriale. In altri campi, ad esempio quello delle macchine utensili, la musica sarà diversa.
Per scrivere il mio libro ho analizzato una serie di casi, cercando di capire come nascano queste macchine, e anche lì ho scoperto delle cose ai più ignote. Si dovrebbe vedere quanta artigianalità c’è ancora nella realizzazione delle macchine utensili. Quanto sia alto il grado di personalizzazione, il livello di “fatto su misura per te”.
Stiamo parlando di pmi o anche di realtà più grandi?
Prendiamo Geox, che è leader nel lifestyle casual. Geox ha decine di artigiani che fanno i modellisti. Una delle forze di Geox è aver internalizzato competenze straordinarie, che una volta erano disseminate nei distretti, e che loro hanno portato in house. Uniscono il meglio delle tecnologie e il meglio dell’artigianato per produrre prototipi che poi vengono industrializzati in giro per il mondo.
Oppure prendiamo un caso dalla provincia di Vicenza, Zamperla. Zamperla è un mix di high tech e artigianalità: in una sala c’è solo tecnologia, computer con i software per calcolare le spinte centrifughe e altro; poi entri nell’altra sala e ci si imbatte in un gigantesco laboratorio di artigiani che fanno pezzi unici. Gente che salda, carpentieri, pittori, decoratori…. Come in Geox, questa combinazione di ricerca scientifica ad alto livello e di manualità, ha dato ottimi risultati. Quando la città di New York ha offerto a Zamperla la possibilità di costruire il luna-park di Coney Island, le ha dato appena 100 giorni di tempo per completare tutto, e loro hanno potuto fare una cosa del genere solo perché dominano un saper fare unico.
Combinare artigiano e alta tecnologia, insomma.
Noi abbiamo seguito acriticamente l’idea che esistesse una conoscenza astratta-scientifica che si traduceva automaticamente in valore economico. È più complicato di come pensavamo. C’è molta intelligenza nel fare, soprattutto quando i prodotti sono pensati per clienti con richieste specifiche o devono evolvere rapidamente nel tempo.
Insomma, rivalutare l’artigianato per poter essere più competitivi sui mercati globali.
Noi, figli dei dogmi di cui le ho appena detto, abbiamo sempre ripetuto il mantra “dobbiamo investire in ricerca”, considerando invece l’artigianato e le professioni manuali come un retaggio del passato. Se si inizia a ragionare diversamente e a vedere nell’artigianato una risorsa, si ottiene di colpo un acceleratore di innovazione di cui non si riesce nemmeno a immaginare la portata. Anziché giocare alla guerra dei mondi, pensi a cosa si potrebbe fare combinando gli artigiani della meccanica, o della moda, o del vetro, e abbinandoli a un ingegnere, a un esperto di comunicazioni.
Combinare il sapere non formalizzato con quello formalizzato e accademico.
Io, che insegno a Ca’ Foscari, ci ho provato con i miei studenti. Ho fatto sette gruppi da cinque ragazzi; ciascun gruppo ha lavorato con un’azienda per sperimentare modi nuovi di valorizzare il saper fare artigiano. Aziende apparentemente low tech, che fanno biscotti, biciclette, o divani. Prima di tutto ho dovuto far capire ai ragazzi che non stavano studiando un caso di folklore, ma che dovevano scoprire una miniera di sapere con il compito di realizzare dei piani di crescita rapida. In questa iniziativa ho coinvolto banche, esperti di relazioni pubbliche, l’ICE.
Mi scusi, ma i suoi studenti come l’hanno presa?
E i ragazzi ne sono rimasti entusiasti. Molti di loro non avevano neanche mai preso in considerazione un’idea del genere.
Bisogna far riscoprire agli italiani, anche ai più giovani, il lavoro manuale dunque.
Se si riuscisse a riconciliare gli italiani con il lavoro manuale sarebbe un sollievo: questa concezione manichea, che ha separato il sapere manuale da quello accademico e scientifico, è stato un errore madornale.
Una cosa non esclude l’altra, però: posso puntare sia sulle nuove tecnologie, sia sulla tradizione.
Certo, può. Però se vediamo quali sono i prodotti che vendiamo nel mondo, notiamo che non esportiamo biotech o nanotech, ma la meccanica, la componentistica, gli abiti di alta sartoria, l’agroalimentare, (un po’ meno) il design. Un giorno, forse, venderemo anche le nanotecnologie, ma stiamo parlando di un orizzonte di lungo termine. La crisi ci impone di rimettere in moto la macchina economica in tempi brevi.
Lei dunque dice: valorizziamo ciò che abbiamo.
Valorizziamolo nel senso economico e culturale del termine. Negli ultimi dieci anni, il numero dei cosiddetti creativi si è centuplicato. Da quando Richard Florida ha scritto della classe dei creativi e delle 3 T (tecnologia, tolleranza e talento), tutti hanno voluto fare i creativi. Mentre il numero degli artigiani è rimasto lo stesso, o è addirittura calato. Quello che deve fare la nostra economia è ragionare proprio sulla saldatura tra il secondario e terziario, tra servizi e industria. Avere tante fabbrichette ormai serve a poco: molto più utile combinare le competenze artigianali di cui ancora disponiamo con quelle degli ingegneri, dei ricercatori, dei medici, degli esperti di comunicazione. Un cocktail così può generare l’inverosimile, a condizione che la nostra cultura riconosca il saper fare come un vero sapere.
Ecco, di nuovo, saltar fuori il titolo del suo libro: futuro artigiano.
C’è un aneddoto rivelatore. Quando Ettore Sottsass, celebre designer italiano, è andato alla Nasa, e gli hanno fatto vedere le componenti delle capsule spaziali, lui, colpito, ha commentato: «Questo posto è pieno di artigiani». L’aneddoto è divertente perché fa capire come l’high tech che servì a mandare l’uomo sulla Luna fosse in realtà tutto “fatto su misura.” Noi crediamo sempre che sia la scienza l’unico modo per risolvere i problemi. Dietro a molta scienza e sperimentazione c’è invece una capacità di fare che magari facciamo difficoltà a formalizzare, ma che rappresenta una risorsa straordinaria per l’innovazione.
I giovani non fanno gli artigiani anche perché spesso sognano di lavorare come dipendenti, pubblici o privati. C’è, secondo lei, una mancanza di cultura del rischio tra i giovani?
È paradossale, ma tutta la discussione sulla meritocrazia negli ultimi anni non ha aiutato la cultura del rischio. È paradossale perché oggi molti dei nostri migliori studenti, proprio in virtù del fatto che hanno ottimi curricula, si aspettano che qualcuno li assuma. Molti di loro si sono semplicemente adeguati a un percorso deciso da altri; lo studente rischia poco di suo. Oggi viviamo in una società che invece esige che l’imprenditore vada controcorrente, facendo cose diverse, scommettendo su quello che altri non fanno. Ecco perché trovo tutto quanto paradossale: da un lato coltiviamo una cultura della meritocrazia, e dall’altro ci aspettiamo che basti un buon curriculum scolastico per farcela. Un film come The Social Network ha forse cambiato un po’ la percezione. Colpisce, nel film, la frase del rettore di Harvard: «Qui i laureati pensano che sia meglio inventarsi un lavoro che trovarne uno».
Fonte: Linkiesta